Le misure dell’attesa
L’11 marzo 2020 l’Italia si fermava. L’11 marzo io entravo nella mia dodicesima settimana di gravidanza. La vita non si sarebbe fermata.
Come da decreto, rispettai le prescrizioni e decisi di uscire solo per “situazioni di necessità”, così segnavo nel modulo di autocertificazione le visite ostetriche. Sono quarantatré i km che dividono casa mia dall’ospedale; è una clinica tra le alpi carniche, per arrivarci si percorre una strada che si snoda lungo il fiume Tagliamento.
I luoghi, guardati attraverso il finestrino durante i cinquanta minuti di macchina, diventavano così parte di un paesaggio interiore che prendeva reale forma solo nell’addome, in continua mutazione. A fianco a me il mio compagno. Seduta sul sedile posteriore, mi scortava fino all’entrata dell’ospedale per poi aspettare nel parcheggio: ai padri non era permesso entrare. I soli paesaggi che potevamo scrutare erano allora i nostri corpi, alla ricerca del futuro nell’osservazione dei tratti somatici dell’uno e dell’altra, scorgendo nelle misure ecografiche la prova di un tempo che scorreva. Il 4 maggio il ventre era diventato la collina su cui correre e, i nostri occhi, laghi lucidi colmi di una speranza volta non alla difesa di uno stile di vita, ma della vita stessa.